Via Crucis per il Terzo Millennio - Chiara Strozzieri

Marmo greco pentelico, porfido rosso, cipollino, onice d'Egitto, nero del Belgio, alabastro cotognino, broccatello di Spagna, peperino di Marino. Sono questi i versi di una poesia che Paolo Marazzi compone da oltre quarant'anni, dedicandosi anima e corpo a un'antica tecnica di sagomatura e giustapposizione di lastre marmoree, nata nel I secolo, approdata all'intarsio di legni nel XV e oggi adeguata a narrazioni complesse.
La tarsia ha segnato il suo lungo percorso artistico, fatto di sculture in bronzo, opere monumentali, cartoni colorati, permettendogli di unire le idee concettuali che caratterizzano l'intera sua produzione alla passione viscerale per l'esperienza materiale e il lavoro manuale.
Marazzi vive una profonda liberazione nelle cave marinesi, che lo costringono a trovare soluzioni concrete e immediate alle questioni che la pietra per sua natura pone inevitabilmente, lasciando spazio a nient'altro che a una destrezza empirica. L'idea e il progetto vengono semmai prima e dopo questo rapporto diretto con la materia, sotto forma di bozzetti ricchi di indicazioni, che nella vivacità dei colori e nell'attenzione estrema al segno, risultano felici trasposizioni di figure plastiche sul foglio.
Il culto del marmo con il suo carattere di eternità si lega dall'anno giubilare al desiderio di approfondire il tema sacro e porre la tecnica dell'intarsio a servizio di una componente mistica, che fa parte di Marazzi, entrato giovanissimo, nel 1964, in Vaticano per seguire uno studio per il restauro. Nel 2000 viene nominato da Papa Giovanni Paolo II Accademico Pontificio Virtuoso al Pantheon. Ne deriva una Via Crucis, unica nel suo genere dalla nascita della cristianità, composta da 14 tarsie in marmo, frutto di dieci anni di intenso lavoro, di cui rimangono non solo cartoni eseguiti in fase progettuale, ma anche alcune sculture in pietra albana.
L'artista, che ci ha abituati a un sapore neofuturista, quando ha sviluppato le linee-forza boccioniane nella propria ricerca plastica, torna a concepire un'energia intrinseca, che spinge i corpi a sperimentare le proprie capacità elasti-che. Nonostante si tratti di incastonare le pietre, bloccandole nel disegno e non lasciando mai spazi intermedi, che romperebbero la composizione, le figure si svincolano dalla loro immobilità e danzano in un dinamismo perfetto, fatto di linee slanciate, volumi resi grazie al supporto della geometria, compenetrazione di forme. Vengono rispettati i principi avanguardistici di sintesi del moto e modellamento dello spazio, pur spegnendo i furori polemici e secolarizzati dei futuristi in favore di una nuova idea di arte sacra.
I movimenti portati all'estremo aiutano il dramma del percorso di Cristo alla Crocifissione sul Golgota a compiersi, amplificando i gesti più tragici (la Veronica che porge il sudario, Gesù inchiodato alla Croce, Maria con in braccio il Figlio) e spingendo lo spettatore a una partecipazione commossa. Si innesca una forza centripeta che catalizza l'attenzione e introduce nel cuore dell'opera, facendo rivivere il pathos dell'evento storico e trasformando la contemplazione di un prodotto artistico in esperienza viva. C'è sempre un nucleo centrale, dove le linee si fanno concitate e intorno al quale si sviluppa tutta la scena, ampliandosi secondo una prospettiva ben gestita, grazie a una profonda conoscenza dei marmi e l'abilità nell'impiegare anche i frammenti più difficili. Questo risulta evidente soprattutto in Cade la III volta, dove il volo prospettico è azzardato e la visione dall'alto rende perfettamente la grave oppressione ricaduta su Cristo, che si piega sotto lo sguardo dei suoi carnefici, in gruppo sopra la sua testa. È un racconto drammatico che spiega il perché gli intarsiatori fossero chiamati nel '400 "maestri di prospettiva" e annovera l'autore marinese tra i più abili del nostro tempo, in un momento storico in cui la tecnica dell'intarsio marmoreo artistico si sta perdendo.
Qui la lunga esperienza dell'artista è messa a servizio della fede, secondo una concezione tutta sua di opera devozionale. Paolo Marazzi infatti viene guidato da una spiritualità, che investe la sua gestualità e certamente la condiziona, tuttavia il suo non è il consueto modo tutto celebrale di concepire un'opera d'arte sacra, perché sembra impossibile per lui perdere quella concentrazione, che sta tutta nelle mani e che ne fanno un virtuoso della materia. E se questa è il motivo che muove tutte le cose, allora è anche determinante che tutte le sue splendide qualità vengano fuori attraverso gli strumenti atti a plasmarla.
Prima di tutto è palese la gravità del colore all'interno della composizione, capace di dare profondità, concedere zone d'ombra, creare parti concave e convesse di un corpo assieme alla linea. La naturalezza della pietra viene fuori nella cromia, che è propria delle diverse essenze marmoree, e nelle venature, che conferiscono un'eleganza classica ai pezzi. Emerge chiaramente il carattere di unicità della tarsia, che un tempo doveva valorizzare ambienti importanti, quali cori e studioli, con un "ideale di separatezza riflessiva" (Ferretti), che andava a incontrare sempre l'intelletto di personaggi eccezionali. Ogni opera è esempio di un linguaggio specifico, i cui codici sono rimasti sempre gli stessi nei secoli, ma che si è anche arricchito grazie a menti rivoluzionarie, come quella di Marazzi, che l'hanno modernizzata.
Così ancora oggi le è possibile estrinsecare tutta la sua preziosità, modificando lo spazio che le sta intorno e la contiene, da quello espositivo a quello di destinazione. Può essere compresa facilmente allora la meraviglia che le 14 stazioni della Via Crucis, affilate in un unicum armonioso, possono destare. I volumi si corrispondono grazie a variazioni di forme consolidate e man mano il racconto segue un climax che raggiunge l'apice nel Sepolcro e Resurrezione.
La Via Crucis ha carattere devozionale e viene vista dalla Chiesa come una via per ripercorrere la Passione di Cristo, deve quindi concludersi col momento atroce della sua morte corporale.
Diversi artisti hanno aggiunto una quindicesima stazione, quella della Resurrezione, come riflessione finale sulla visione salvifica della religione cri-stiana. Marazzi non ha voluto alterare la tradizione, se non nel titolo, Sepolcro e Resurrezione. Cristo è al centro, sorretto dai suoi discepoli, Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, perché essi ne diano sepoltura, ma è anche al vertice di un triangolo insieme al Padre e allo Spirito Santo. La visione della Trinità illumina questo originale ciclo di opere, battezzato dal sapiente saggio critico di Carlo Fabrizio Carli nel 2000 e apprezzato dalla Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, nella figura del suo Presidente, Vitaliano Tiberia, che ha lasciato una sua testimonianza illuminata sul lavoro di Paolo Marazzi.
La sua interpretazione magistrale del tema sacro ci conferma l'urgenza dell'arte, andando a completare parole di una forza straordinaria, che la storia ci ha lasciato: "Noi tutti come pecore erravamo, ognuno di noi seguiva il suo cammino e il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di tutti noi. Maltrattato, egli si è umiliato e non aprì bocca; come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aprì bocca" (Isaia 53, 6-7).

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