Dimensione Mediterranea - Carlo Fabrizio Carli
Per quanti, come il sottoscritto, sono persuasi che il nodo basilare della creatività estetica "contemporanea" sia quello di saldare le irrinunciabili e del resto ampiamente storicizzate acquisizioni della ricerca novecentesca con i valori fondativi della tradizione artistica occidentale, il lavoro articolato ma coerentissimo di Paolo Marazzi assume un significato di speciale pregnanza.
Perché, se è a dir poco assurda la pretesa di poter voltare all'indietro le pagine del libro della storia dell'arte, non ci sembra neppure condivisibile la teoria - benché esplicitamente formulata - secondo cui le avanguardie storiche concluderebbero un millenario repertorio di riferimenti e di valori estetici, per inaugurarne uno nuovo, rispondente a valutazioni innovative e fatalmente effimere.
Questa convinzione umanistica mi sembra imporsi dall'intera attività di Marazzi, così da giustificare la lettura di Floriano De Santi, che aveva voluto iscriverla sotto il "segno di Giano", vale a dire di una sintesi dell'innovazione e della storia.
Una formula da accettare senz'altro, a patto tuttavia di recepire la positività insita nel mito classico, e di precisare come l'endiadi di antico e moderno, di sperimentale e di assiologicamente motivato, si risolva in feconda matrice ispiratrice di un autentico maestro della scultura italiana contemporanea.
Prendiamo subito in esame il versante delle opere monumentali, commissionate a Marazzi non soltanto da numerose amministrazioni pubbliche e da collezionisti privati della Penisola, ma anche dall'estero, come il possente "All'Uomo Costruttore di Pace" destinato a Berlino, o il Monumento ai navigatori del Mare del Nord, inaugurato nel 1992 a Wangerooge, nelle Isole Frisoni tedesche.
Si tratta di sculture alte alcuni metri, ricavate interamente da blocchi di Pietra Albana, la roccia vulcanica le cui cave si trovano ai margini dell'abitato di Marino, dove Marazzi è nato e vive.
Si tratta di una scelta ricca di significati, in quanto testimonia un tenacissimo radicamento dello scultore non soltanto nella fisicità ("le vene", per dirla con W.C. Williams) della sua terra, ma altresì in un'insigne tradizione di manualità che risale all'indietro lungo il corso dei secoli (sulle pareti delle caverne marinesi è possibile individuare ancora oggi le tracce dell'estrazione romana e rinascimentale).
Le cave marinesi appaiono attualmente abbandonate, cosicché la quasi solitaria attività del nostro artista si fa portatrice di un'ulteriore valenza, la rivendicazione quale eminente materiale plastico (riscoperto come tale, all'inizio del secolo, da un grande pittore-scultore: Roberto Melli) del Lapis albanum, pietra scabra, austera, contrassegnata da una sorta di arcaica sacralità.
Questa lezione di sapiente fabbrilità agisce, con effetti qualificanti, nella fase realizzativa: Marazzi esegue personalmente, in cava, a forza di scalpello, mazzuolo, subbia, gradina, tutte le fasi della modellazione, dalla sbozzatura alle rifiniture. E confessa, al pari di ogni scultore di razza, che realizzare interamente un'intuizione plastica dal blocco di pietra, costituisce per lui la soddisfazione più appagante.
Quanto risultano significativamente lontani i procedimenti sbrigativi e commerciali degli "scultori" che demandano l'esecuzione dei bozzetti - quasi si trattasse di una mera fase meccanica - ai pur abilissimi artigiani carraresi!
L'intervento della superiore fabbrilità di Marazzi si scorge nitidamente nel trattamento superficiale della materia; in quella pelle litica, carezzata amorevolmente dalla gradina, resa vibrante alla luce, trattata con finitura diversa - ora liscia ora ruvida - sulle diverse facce d'incidenza. Altro che sfera artigiana: si tratta qui dell'esercizio di attributi eminentemente scultorei.
Ma, naturalmente, è soprattutto sui registri delle forme e dei volumi, ad un tempo eleganti e poderosi, che Marazzi dà prova piena della propria personalità. La nitida ideazione che ignora ripensamenti e rifugge da concessioni accattivanti; l'eccezionale padronanza della sintesi plastica, attestano come il nostro artista abbia proficuamente assimilato le acquisizioni fondanti della scultura moderna. Il dinamismo futurista; la scomposizione cubista, in particolare la lezione di Archipenko e Lipchitz; la lirica depurazione formale di Brancusi e Arp; ma anche Moore per quanto attiene alla linea curva.
Una scultura, la sua, spontaneamente avviata verso la dimensione astratta, comunque remotissima da suggestioni informali, in quanto perentoriamente formale, anzi talvolta perfino percorsa da riaffioranti suggestioni figurali. Quest'ultimo è, peraltro, un argomento che merita qualche riflessione più attenta: gli "accenti naturalistico-descrittivi" (Apa), percepibili nella declinazione antropomorfica della raffinata stilizzazione compositiva (si pensi ad opere come Slalom o Monumento all'astronauta), restano perlopiù circoscritti, infine risolti nella "riduzione della forma… in prospettiva ciclica, ovoidale o elicoidale", in cui Benincasa scorgeva lucidamente "il sintomo di un'interpretazione mistico rituale dei suoi elementi culturali e di una simbologia junghiana.
In effetti, l'insistenza nel corpus monumentale di Marazzi sul tema antropomorfico, assunto a motivo figurale per eccellenza, s'accompagna ad una forte opzione spiritualistica, ravvisabile nel riconoscimento dell'uomo quale artefice di storia, portatore di una dignità, di valori e di istanze eticamente motivate ai più nobili livelli.
Altrettanto nitidamente, la concezione umanistica insita nella scultura marazziana è testimoniata dall'adesione dell'artista alla concezione platonica delle forme, già potenzialmente racchiuse nel blocco di materia grezza e indistinta, che spetta all'artista di liberare - michelangiolescamente - "per via di levare".
Punto davvero nodale, questo, come ebbe già occasione di osservare Leo Strozzieri, in cui la prospettiva platonico-michelangiolesca viene a contrapporsi a quella di discendenza dadaista, che interpreta la scultura come assemblaggio di componenti, se non addirittura di materiali, eterogenei.
Ecco emergere così, in Marazzi, un ulteriore spunto di classicità, seppure - ça va sans dire - di una classicità nient'affatto revivalistica e retrospettiva, ma, appunto, integralmente calata nelle coordinate della modernità.
Nelle opere monumentali eseguite negli anni più recenti, diciamo nell'ultimo lustro - il San Michele Arcangelo del 1993, l'Urlo di Leocorno (realizzato nel '94 per l'omonima contrada senese), la splendida Vela sul mondo (scolpita nel '95 per il Comune di Belforte del Chienti), davvero ammirevole in quanto a capacità di sintesi plastica e di equilibrio compositivo, infine il recentissimo All'uomo signore delle cime ('96) - è possibile scorgere dentro i poderosi volumi litici l'urgere di vibrazioni e tensioni nuove.
La tettonica staticità delle sculture precedenti sembra ora affidarsi più liberamente allo spazio, quasi per l'avvenuta liberazione di forze fin qui rimaste bloccate nella pietra.
La disperata energia che sprigiona dall'araldico animale; soprattutto il cosmico conflitto tra il principe delle celesti milizie e il dragone infernale, soggetto di tante affascinanti opere medievali, è riletto da Marazzi, nell'attimo culminante in cui l'arcangelo trafigge il demonio, con personalissima capacità di essenzializzazione, riuscendo a coinvolgere la materia in un'irresistibile spirale avvolgente.
A ben vedere, gran parte dei temi sopra esposti intervengono pure a sostanziare la felicissima riuscita delle fusioni in bronzo, un materiale da sempre associato all'espressione plastica, ma fattosi ormai latore di intrinseche valenze linguistiche, connesse alla nobiltà della tradizione del suo impiego.
Seppure concettualmente meno pregnante riguardo la concezione del fare scultura assunta come privilegiata da Marazzi - vale a dire, il confrontarsi diretto con la pietra e il marmo - e, forse proprio per la mediatezza insita nel processo di fusione, il bronzo - anch'esso trattato, in analogia con la pietra, sulle superfici contigue, via via, a finitura ruvida o lucidata - testimonia la superiore padronanza della tecnica da parte dell'artista marinese.
Né si tratta esclusivamente di versioni in scala ridotta dei marmi monumentali, veri e propri bozzetti recati tuttavia ad impeccabile finitura e viventi ormai un'autonoma esistenza plastica, ma anche di opere concepite e realizzate appositamente per dimensioni contenute: valgano per tutti, gli esempi di Onda cosmica, tra le più sintentiche e liriche ideazioni dello scultore, e il recente All'uomo del Giubileo Miilenario, tema che a Marazzi sta particolarmente a cuore, in quanto gli offre l'opportunità di una riflessione problematica, ma non chiusa alla speranza, sulla nostra umanità tormentata e contraddittoria, fragile e violenta alla "svolta magica" del secolo e del millennio.
In genere, poco la critica si è soffermata sui disegni cui Marazzi affida il momento alchemico del primo concretizzarsi sul foglio bianco dell'ideazione plastica. Ed è un peccato, perché nel laboratorio di uno scultore che si rispetti, il corpus grafico rappresenta una testimonianza insostituibile dell'approccio e dell'elaborazione di una determinata composizione spaziale. Comunque costituisce una documentazione profondamente diversa dai disegni dei pittori. Si tratta, in realtà, di un esercizio funzionale alla disciplina, per cosi dire di "sculture disegnate", dove non interessano tanto gli effetti pittorici, quando la restituzione grafica dell'articolazione volumetrica.
I disegni di Marazzi, tracciati da un segno largo, sgranato, che obbedisce ad un ductus veloce e senza pentimenti, ci restituiscono con perentorietà le varie fasi del processo ideativo delle varie sculture (pensiamo, con funzione esemplare, alla sequenza degli schizzi efficacissimi per il Navigatore di Wangerooge).
Il discorso sul corpus grafico, articolato in questo caso in un'estesa gradazione di scala - dallo schizzo al cartone di lavoro al vero - si presta pure ad introdurre un ulteriore ambito operativo, che assume nell'attività di Paolo Marazzi rilievo specialissimo. Intendiamo della tarsia marmorea, tecnica antica e preziosa, che ha nel nostro artista il riscopritore in epoca contemporanea.
Va subito detto che l'argomento assurge per Marazzi - analogamente alla scelta della Pietra - Albana relativamente all'esecuzione della statuaria monumentale - a motivo di serrato coinvolgimento esistenziale.
Nel tempo stesso in cui frequenta i corsi dell'Accademia di Belle Arti della capitale, il diciassettenne Marazzi accede pure al laboratorio di restauro dei marmi del Vaticano.
Agli occhi sensibili e intellettualmente voraci del ragazzo, si dischiude un mondo affascinante: la litica montagna della basilica, con le proporzioni e le suggestioni formali offerte dalla cupola michelangiolesca, dal colonnato berniniano, dell'abside. E ancora le statue colossali degli apostoli e dei santi, della Veronica e del Costantino equestre, i capolavori della plastica antica, dall'Egitto alla Grecia, al Rinascimento> in quella dimensione mediterranea che Marazzi riconoscerà sempre per la propria. E lo sfoggio, il tripudio dei marmi antichi e preziosi, estratti in età classica da cave che risultano ormai esaurite da secoli.
In Vaticano, l'artista esordiente imparò a riconoscere e ad amare i marmi, i colori, le grane, le tessiture, la loro impareggiabile sontuosità segnica.
E soprattutto ad apprezzare le tarsie, i"commessi marmorei", quanto i Romani, che ne facevano abituale impiego, avevano battezzato opus sectile.
Apparsa in Asia Minore, affermatasi in Persia, in Egitto, in Grecia, a Roma, riemersa in età medievale con le botteghe capitoline dei Cosmati e dei Vassalletto, praticata a livelli esimi nel rinascimento e in età barocca, la tarsia fu poi praticamente rimossa da disaffezione e oblio.
A Marazzi va riconosciuto il grande merito di aver resuscitato la tecnica a livelli di eccellenza tecnica, ma, soprattutto, di aver conseguito, per tale via, incontestabili esiti di forte spessore estetico.
Alla preziosità dell'intarsio contribuisce in misura sostanziale la padronanza che l'artista ha conseguito dell'universo litico, in particolare - s'è già accennato - dei marmi antichi, onusti della manualità che s'è incessantemente esercitata su di loro nel corso dei secoli, e che vengono da lui impiegati per la stupefacente ricchezza cromatica e segnica.
Africano rosso, Porfido, Portasanta, Pavonazzetto, Serpentino, Broccatello e decine di altre qualità; sembra quasi che per accostare adeguatamente, al punto di vista petrologico, le tarsie di Marazzi occorra tenere a portata di mano le pagine affascinanti di Marmora romana di Raniero Gnoli.
In realtà, torniamo a precisare, se la specificità di una tecnica così elaborata e desueta come quella della tarsia coinvolge di necessità e direttamente il linguaggio dell'artista (e come tale merita d'essere indagata), tuttavia il motivo effettivo dell'attenzione che rivolgiamo loro non consiste certo nella raffinata fabbrilità (che pure rappresenta una componente essenziale del risultato estetico), quanto negli autonomi valori creativi.
Ebbene, il dato che colpisce immediatamente nelle tarsie marazziane è il perentorio effetto di coinvolgimento dinamico che s'origina in quelle composizioni così rigorose, in quelle forme nitide, senza sbavature, oltretutto ottenute dall'associazione di materiali che, altrimenti, si definirebbero statici per antonomasia.
Vitalmente legato al lavoro di Marazzi fin dagli esordi, ovvero dal 1964, allorché diciassettenne realizzò la prima tarsia, Formazione dell'Universo fino all'opus magnum (un tondo di due metri di diametro) Risveglio del 1997- questo repertorio di marmi commessi, forse ancor più distintamente che nel caso della scultura tridimensionale, rivela l'influsso di quell'ansia dinamica che fu propria del Futurismo.
Più propriamente, del Futurismo risolto nell'astrazione, quello dei dipinti interventisti di Balla e delle composizioni degli anni Dieci e Venti; di Boccioni intento ad indagare i tracciati delle linee di forza; senza trascurare le tarsie tessili e i collage di Depero.
Accanto a quello dinamico si sprigiona qui un marcato effetto tridimensionale, di cui Marazzi è peraltro pienamente consapevole, tanto da aver definito le proprie tarsie come "il recupero tridimensionale della scultura tramite le vibrazioni del colore".
Giorgio di Genova ebbe a coniare al loro riguardo una formula assai suggestiva, che merita tuttavia una postilla: "specchio cosmico..…ove viene ribadita la profonda unione di microcosmo e macrocosmo 'In effetti è proprio la loro carica dinamica a farne qualcosa di radicalmente diverso, nonostante l'abituale forma circolare, rispetto a quegli altri "specchi cosmici" che sono i mandala di discendenza buddista e tibetana - cui, a prima vista, potrebbe venir fatto di accostarli - datoché questi ultimi costituiscono la materializzazione di ideali cosmografie, catafratte in armonie di stereometrica fissità.
Pensiero cosmico, Verso lo spazio, Asteroide, Meteore, Esplosione solare, ecco appena qualche titolo che Marazzi ha attribuito alle sue tarsie, sigle che parlano chiaramente dell'istintiva associazione che questi diorami litici istituiscono con l'infinitamente piccolo o l'infinitamente grande della materia, inabissandosi tra le strutture molecolari, ovvero proiettandosi tra le concordanze siderali.
Si percepisce in esse una pregnanza cosmologica, un vibrare di energie nascoste, come nel felicissimo tondo Germogli del 1990, in cui realmente s'avverte lo spaccarsi del seme sotto l'urgere biologico della germinazione.
Ma neppure il linguaggio così denso delle tarsie si è rivelato sufficiente ad acquietare la ricerca fabbrilmente denotata dello scultore, che ha voluto misurarsi con ulteriori materiali, con altre tecniche.
Con la ceramica, intanto, di cui Marazzi ha approfondito le potenzialità cromatiche e compositive su registri essenzialmente bidimensionali, in un discorso condotto in stretta coerenza linguistica con i vivacissimi cartoni di lavoro delle tarsie.
Senz'altro assai personali, di alto profilo e comunque suscettibili di proficui sviluppi, appaiono infine i risultati che l'artista ha ottenuto dall'impiego del vetro nelle portentose fucine muranesi. Per Marazzi, questo è materiale strettamente scultoreo, senza alcuna concessione alla sfera utilitaria, neppure a quella del design. Si rifletta sui pur nobili artisti che si sono applicati al tema vetro; tranne rarissime eccezioni, tutti hanno finito col gravitare nell'area dell'artigianato, o, comunque, della declinazione ancillare dell'oggetto d'uso. Al contrario, il nostro scultore, alle prese con questo materiale anche fisicamente specialissimo, resta fedele alla dignità plastica della modellazione, alla propria ricerca formale: valga in questa sede un esempio soltanto, Pensiero e luce del 1994.
Al vetro, Marazzi chiede appunto quanto gli altri materiali non sono in grado di offrirgli: la qualità d'essere attraversato dalla luce, e quindi la possibilità di vedere attraverso le sue sculture; di accenderle di preziosità e perentorietà cromatiche altrimenti inattingibili.