I segnali "ciclici" e "antropomorfici" di Paolo Marazzi - Alessandro Masi

Ho sempre parlato dell'opera dello scultore Marazzi in termini di investigazione «alchemica» e «archetipa» della materia che, attraverso il suo intervento, si rende capace di ridestare e riscattare una propria vitalità altrimenti perduta o destinata a non ricongiungersi alla storia la vicenda delle sculture ciclopiche e monumentali che dal 1977 l'artista italiano vede collocate ed inserite in spazi pubblici e privati di grande risonanza.
Opere che oltrepassano le venti tonnellate di peso tutte interamente scolpite con una capacità tecnica che affonda le radici nella cultura millenaria delle «pietrare» tufacee laziali (Lapis Albanus) e che già nell'antichità della Roma repubblicana e imperiale trovarono ampio uso: tamburo di Castel S. Angelo e il sarcofago dei Corneli.
Una pietra di pace, di costruzione e di civile impiego sociale (Acquedotti romani), docile ai ripetuti colpi della «subbia» e dello «scalpello» e nello stesso tempo suggestivamente accattivante per il suo valore cromatico caldo ed austero.
E' impressionante seguire la storia di queste immense cubature laviche sfaldarsi sotto le progressive fasi della lavorazione e soprattutto osservarle nel loro contesto naturale, in quelle enormi fosse di estrazione che dai futuristi Melli e Depero ai più recenti artisti come Calò, Guerrini, i Cascella e Mastroianni, hanno costituito un centro d'attenzione artistica internazionale.
Proprio in tale contesto Marazzi, come il mitico «Hephaestos», forgia le sue materie, appunta i suoi ferri aguzzi, violenta e strappa alla madre-terra le sue parti più cave e nascoste. In questi antri smisuratamente alti e dalle prospettive sghembe e spaventose, si rinnova il rito di un «Prometeo» cui riaccendere antichi dolori, cui ritorcere l'antica colpa di un volo d'orgoglio e ritrovare nel mito ancora una volta le proprie radici.
E' un'avventura quella di Marazzi nata, appunto, nel 1977, quando la sua prima opera monumentale fu collocata nella piazza principale della città di Marino.
Analiticamente l'«Abbraccio» - questo il titolo - può considerarsi già autonoma e scevra da ogni stretto aggancio con la «tradizione»: carica potenzialmente di diversi elementi propositivi che il futuro lavoro ha riconsegnato esatti e puntuali.
Una plastica ed un modellato solido costituiscono l'intima forza dell'opera dello scultore italiano, costruita per nessi strutturali potenti, in una gerarchia di pieni e di vuoti, in un’armonia di contrari ed opposti. Un abbraccio più che fraterno congiunge i due blocchi, la vita e la morte, Eros e Tanatos, il tutto ed il nulla, attraverso una serie di valori antropomorfici che rimarranno una costante fissa nella produzione avvenire.
I monumenti che si sono succeduti all'«Abbraccio» quali il «Giuoco» per l'Anno Internazionale del Fanciullo (1979) e «L'Astronauta» (1981) - primo monumento in Europa per gli uomini dello spazio - seguono un ulteriore sviluppo nella poetica e nella sintassi dei ritmi. La forma conchiusa della precedente produzione cede all'imperativo di nuove ipotesi di misurazione spaziale e lo stretto rigore costruttivo acquista slancio ed ironia necessaria per una rinnovata plasticità sempre più dinamica.
Forme ovoidali, ellittiche e circolari catalizzano e filtrano nei rapidi tronchi di passaggio, elementi di un lessico archetipico ed antropomorfo, teoremi di calcoli geofisici ed astronomici, traiettorie di probabili galassie.
Sono gli anni in cui la dichiarata derivazione umana delimita il campo dei valori immaginifici e fantastici del repertorio iconico e plastico dell'artista Marazzi.
E' singolare come tutta la critica precedente, pur riconoscendo valori similari o perfettamente aderenti all'assunto bio-psichico junghiano, non abbia approfondito ulteriormente il nesso che indubbiamente intercorre tra questi e la statuaria in questione. Il «totemismo», la ciclicità, il ritorno fetale ed ovoidale delle sculture monumentali dell'artista, trovano una sorprendente coincidenza con tutta una serie di elementi archetipici già risolti nella teorica di Bachelard o, meglio ancora, nella sistemazione che ad essa ha apportato il lavoro del Durand («Le strutture antropologiche dello immaginario», G. Durand, ed Dedalo 1984).
Mostri innocui, giganti, Menhir, titanici ciclopi delle popolazioni fantastiche dell'artista - soggetti di un universo che avrà vissuto anche nello scultore dell'Isola di Pasqua, a Bomarzo, nelle venerazioni galliche - totemiche degli indiani d'America - riaffiorano in Marazzi attraverso il suo lavoro, in una condizione di coscienza primordiale ed ancestrale. Sarà interessante allora seguire tale percorso in una ottica particolare e determinata, tutta tesa verso un accrescimento ed un'esplicazione di un sostrato culturale così pregno di rimandi diretti a referenti altrettanto precisi. Questi segnali-simbolo – considerando anche l'uso e la destinazione della statuaria - non rammentano nei ripetuti passaggi sferoidali una continua riflessione fetale? Un «regressus ad uterum», un ritorno all'uovo che poi altro non è che un riaggancio alla condizione pre-natale dell'uomo stesso. E la madre-terra, la «Cibele» del mito da cui parte e si dipana ogni accrescimento vitale, ad essere chiamata direttamente a fornire la base di ogni eventuale interpretazione antropomorfica della creazione. Sfera, come uovo, come feto ma, ancor di più, come «Mandala»: cerchio e giuoco di una perfettibilità magica e misterio-sofica di ogni forma primaria.
Un concetto - questo mandalico - sul quale lo stesso Jungh insiste molto e nella cui ciclicità ripetitiva è da scorgere qualcosa di realmente cosmico ed universale interno ad una logica di creazione. «Lo spazio curvo - afferma Durand -, chiuso e regolare sarebbe dunque per eccellenza segno di dolcezza, di pace, di sicurezza».
Non appare del tutto illogico, quindi, proporre un ulteriore approfondimento di alcuni «elementi» che nelle sculture di Marazzi appaiono come segnali precisi di un ritorno alla forma concava - di cui il ricordo vivo di un Bernini del colonnato di S. Pietro o di un Michelangiolo dell'attigua cupola - anche in termini di «intimità» o di mitico regresso verso l'oscurità della caverna.
E in altri termini il recupero della forma a «crisalide» della statuaria egizia «legata al complesso della nascita» o la sfericità dell'uovo filosofico occidentale. Tuttavia la chiusura a guscio di molte sue opere questo sprofondamento nella cavità intesa come centro dell'eterno essere dell'uomo non ricorda l'originale forma delle chiglie navali, delle oblunghe corazze delle slanciate e pesciformi «macchine» marittime? Non a caso una delle opere monumentali è dedicata proprio all'uomo del mare - il «Navigatore» del 1985 - nella quale tutti gli elementi già espressi sembrano allinearsi in dovute coincidenze.
E' una civiltà dell'immagine che attraverso l'oceano delle memorie si ricongiunge alle mitiche navigazioni di Caronte, di Iside e Osiride, del Miracolo della Acque di Mosé, degli attraversamenti notturni di un Ade oscura o il viaggio epico di Ulisse: anche Enea arrivò per mare dalla sua antica patria.
A tale inabissamento di valori «intimistici» e «prenatali», si allineano parallelamente alle forme scultore e già presenti nell’«Abbraccio» e fino dalle prime opere, costanti «ritmico-cicliche» nelle quali non appare disagevole scorgere ancora una volta elementi di confronto puntuali e confortanti. Ed è appunto da tale riflessione sul valore ritmico di tali masse pietrificate, di queste «chiocciole» ossessivamente rincorrenti una propria liberazione, che l'accostamento con valori circolari quale il «Mandala» o la mitica venerazione lunare assurgono ad ipotesi concrete. La Luna - questo nucleo cosmico - diviene segnatura temporale (le fasi), zodiacale, agricola, governando cosi la nostra idea di progressione spazio-temporale, e ritornando nel suo specifico tratto di «coincidentia oppositorum», viene a ritrovarsi in molti casi particolari dell'opera di Marazzi.
Spesso l'artista stesso ha sottolineato il suo forte legame con gli elementi del cosmo, con le linee della «catastrofe» e delle masse stellari - una prova ne sono le due sculture per il Parco dello Zodiaco, «Acquario» e «Vergine» (1983-1984) in cui il tema zodiacale, quindi temporale, torna soggetto inconscio della creazione stessa. «Unicum» spaziale nella somma di due opposti in cui la ciclicità del cerchio ovunque appaia, avrà sempre valore di simbolo totale e di ritmico ricominciamento.
Questi ed altri ancora potrebbero essere gli elementi per una lettura più aderente alla poetica monumentale di Marazzi e che rende oggi i suoi lavori Menhir distintivi di mondi più complessi e stratificati dell'inconscio. Ed è ciò che nell'«Uomo costruttore di Pace» - donato per il 7500 Anniversario della città di Berlino-Neukolln dalla gemellata città italiana di Marino - viene a costituirsi nel suo intrinseco valore di oggetto-simbolo e di veicolo trasmissivo di un codice metalinguistico capace di una «totalità» universalistica.
Ora, visto che non sembrerebbe doversi includere nulla di retorico al discorso, si potrebbe ancora affermare che in tale opera si possono scorgere le conquiste ultime della plastica di Marazzi. Un altro «Ciclope» forgiato negli abissi vulcanici. Un totem-amuleto che avrebbe dovuto raggiungere idealmente la «Colonna senza fine» di Brancusi o volare come la sua «Maiastra» oblunga e leggendaria.
Una dorsale potente attraversa precisa come un rasoio il raggio della statua stessa, ritmandone il raddoppio delle curvature e segnando decisamente una sezione circolare già contenente l'intero senso del blocco. Il vuoto che lascia il taglio medesimo (inciso come una tela di Fontana) è la sublimazione e la catarsi di due mondi in stretta connessione uno all'altro; è l'idea di un congiungimento ideale, di riappacificazione, di legame e di amore che soltanto un concetto superiore potrà ricomprendere.
Per ora, sola ed unica una speranza, un'idea di pace, un contributo di buona volontà inciso nella pietra eruttiva e millenaria di un unico pianeta, la terra.

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